2016. agamennone
Agamennone
di Fabrizio Sinisi
(da Eschilo)
regia Alessandro Machìa
con Daniela Poggi, Paolo Graziosi, Elisabetta Arosio, Valeria Perdonò
scene Elisabetta Salvatori
costumi Sara Bianchi
luci Simone Caproli
musiche originali Francesco Verdinelli
suono Riccardo Rocchetti
assistente alla regia Sonia Merchiorri
realizzazione scene Laboratorio della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi in collaborazione con Zerkalo
Debutto assoluto: 14/07/2016 | Teatro romano di Falerone per la Rassegna TAU 2016 organizzata da Amat Marche
di Fabrizio Sinisi
(da Eschilo)
regia Alessandro Machìa
con Daniela Poggi, Paolo Graziosi, Elisabetta Arosio, Valeria Perdonò
scene Elisabetta Salvatori
costumi Sara Bianchi
luci Simone Caproli
musiche originali Francesco Verdinelli
suono Riccardo Rocchetti
assistente alla regia Sonia Merchiorri
realizzazione scene Laboratorio della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi in collaborazione con Zerkalo
Debutto assoluto: 14/07/2016 | Teatro romano di Falerone per la Rassegna TAU 2016 organizzata da Amat Marche
2015. call me God
Call me God
di Gian Maria Cervo / Marius von Mayenburg / Albert Ostermaier / Rafael Spregelburd
progetto e regia Alessandro Machìa
con Monica Nappo Kelly, Nicola Nocella, Alessia Giangiuliani e Mauro Racanati
e con gli Allievi del Corso di Recitazione della Scuola Nazionale di Cinema : Alberto Paradossi, Daniele Mariani, Ester Pantano
scene e luci Elisabetta Salvatori
costumi Sara Bianchi
video project mapping Luca Agnani
tecnico video Stefano Fiore
tecnico luci Matteo Marini
suono Gianluca Gasparrini
aiuto regia Vittoria Sipone
produzione Festival Internazionale Quartieri dell'Arte di Viterbo con il sostegno dell'Unione Europea per il progetto "EU Collective Plays!"
Debutto: Viterbo, ex Cinema 17|18 Ottobre 2015
di Gian Maria Cervo / Marius von Mayenburg / Albert Ostermaier / Rafael Spregelburd
progetto e regia Alessandro Machìa
con Monica Nappo Kelly, Nicola Nocella, Alessia Giangiuliani e Mauro Racanati
e con gli Allievi del Corso di Recitazione della Scuola Nazionale di Cinema : Alberto Paradossi, Daniele Mariani, Ester Pantano
scene e luci Elisabetta Salvatori
costumi Sara Bianchi
video project mapping Luca Agnani
tecnico video Stefano Fiore
tecnico luci Matteo Marini
suono Gianluca Gasparrini
aiuto regia Vittoria Sipone
produzione Festival Internazionale Quartieri dell'Arte di Viterbo con il sostegno dell'Unione Europea per il progetto "EU Collective Plays!"
Debutto: Viterbo, ex Cinema 17|18 Ottobre 2015
Call Me God è un testo politico sui famigerati “Beltway Sniper Attacks”, ovvero gli attentati dei cecchini della circonvallazione, che ebbero luogo in Virginia, Maryland, e Washington DC nel 2002, causando la morte di più di 10 cittadini inermi, apparentemente privi di collegamento tra loro. Su una carta dei tarocchi ritrovata accanto a una delle vittime lasciarono scritto, “Call me God”. Per quegli omicidi furono arrestati due colpevoli - un afroamericano chiamato John Allen Muhammad e il diciassettenne John Lee Malvo, americano anche lui ma originario della Giamaica.
Un viaggio affascinante dentro il declino della postmodernità, all’interno della nostra “società dalle pareti sottili”, per dirla con il filosofo Peter Sloterdijk. Una società che ha perso il diritto alla tragedia, dove tutto è ormai mappato e raggiungibile e le tecniche di immunizzazione aumentano di pari passo con l’ansia, il panico e le fantasie apocalittiche che abitano i cittadini globali e iperconnessi. Una commedia caustica sul tema della libertà, della sicurezza e della precarietà come condizione ontologica dell’esistenza, ch si dipana a ritmo forsennato attraverso un montaggio cinematografico che richiama la slapstick comedy.
Un allestimento postmoderno, cross-mediale e polifonico che prevede cambi di mood, ritmo e tempo, che si sviluppa per contrasti e fa viaggiare la capacità riflessiva dello spettatore a velocità mozzafiato.
Alessandro Machìa
Un viaggio affascinante dentro il declino della postmodernità, all’interno della nostra “società dalle pareti sottili”, per dirla con il filosofo Peter Sloterdijk. Una società che ha perso il diritto alla tragedia, dove tutto è ormai mappato e raggiungibile e le tecniche di immunizzazione aumentano di pari passo con l’ansia, il panico e le fantasie apocalittiche che abitano i cittadini globali e iperconnessi. Una commedia caustica sul tema della libertà, della sicurezza e della precarietà come condizione ontologica dell’esistenza, ch si dipana a ritmo forsennato attraverso un montaggio cinematografico che richiama la slapstick comedy.
Un allestimento postmoderno, cross-mediale e polifonico che prevede cambi di mood, ritmo e tempo, che si sviluppa per contrasti e fa viaggiare la capacità riflessiva dello spettatore a velocità mozzafiato.
Alessandro Machìa
2015. sorella con fratello
Sorella con fratello
di Alberto Bassetti
regia Alessandro Machìa
con Alessandro Averone e Alessandra Fallucchi
scene Alessandra Giuri
costumi Sara Bianchi
luci Paolo Macioci
aiuto regia Vittoria Sipone
fonica Valerio Sabino
foto di scena Manuela Giusto
organizzazione Rossella Compatangelo
produzione Il Carro dell'Orsa
Debutto nazionale: Teatro dei Conciatori | Roma 15-20 Dicembre 2015
di Alberto Bassetti
regia Alessandro Machìa
con Alessandro Averone e Alessandra Fallucchi
scene Alessandra Giuri
costumi Sara Bianchi
luci Paolo Macioci
aiuto regia Vittoria Sipone
fonica Valerio Sabino
foto di scena Manuela Giusto
organizzazione Rossella Compatangelo
produzione Il Carro dell'Orsa
Debutto nazionale: Teatro dei Conciatori | Roma 15-20 Dicembre 2015
« Di fatto nessun desiderio è mai esaudito letteralmente,
proprio a causa dell’abisso che separa il reale
dall’immaginario. »
(Jean Paul Sartre | L’immaginario)
Ultimo testo di Alberto Bassetti che chiude una ideale “trilogia della famiglia” (composta da Le due sorelle e I due fratelli, premio Vallecorsi 2013) , Sorella con fratello è un testo dall’atmosfera ambigua, costruito come un thriller, che affronta il tema della violenza all’interno della famiglia unendo la tragedia di fondo della storia ai toni spesso sarcastici di una commedia nera, cinica. Una storia privata di espiazione e redenzione, una storia borghese in cui la famiglia, da luogo di costruzione della realtà diventa luogo cortocircuitato di oppressione, violenza e deprivazione dell’identità. Qui la figura limite dell’incesto, da archetipo tragico sembra quasi diventare metafora bruciante del destino dell’Italia.
Il fascino del testo di Bassetti consiste proprio in questa tensione tra la tragedia che abita due fratelli e il linguaggio con il quale il tragico viene espresso, fatto di un lessico semplice e di una scrittura che anche nei momenti più drammatici rimane leggera, ironica, decide di situare il tragico nel non detto chiedendo alla regia di farlo emergere attraverso un lavoro minuzioso sulla parola, sulla postura dei corpi, sui rapporti spaziali. Una regia a cui però viene anche chiesto di rimanere sulla soglia, in un atteggiamento di lirica oggettività, con una sorta di pudore verso un dramma che qui si dispiega attraverso una tecnica analitica di progressiva rivelazione del passato.
Nella semplicità quasi straniante che contraddistingue il dialogo dei due fratelli (i cui nomi segnalano una certa condizione infantile) e nel movimento asfittico e circolare che connota il testo, la scrittura, quasi come per una segreta vocazione, tocca due temi fondamentali come l’identità e il desiderio, vero centro gravitazionale della pièce: un desiderio lasciato alla sua opacità, alla sua profonda ambivalenza, che emerge dalle parole dei due fratelli come uno scarto, un resto, qualcosa destinato a una vita immaginaria.
Alessandro Machìa
proprio a causa dell’abisso che separa il reale
dall’immaginario. »
(Jean Paul Sartre | L’immaginario)
Ultimo testo di Alberto Bassetti che chiude una ideale “trilogia della famiglia” (composta da Le due sorelle e I due fratelli, premio Vallecorsi 2013) , Sorella con fratello è un testo dall’atmosfera ambigua, costruito come un thriller, che affronta il tema della violenza all’interno della famiglia unendo la tragedia di fondo della storia ai toni spesso sarcastici di una commedia nera, cinica. Una storia privata di espiazione e redenzione, una storia borghese in cui la famiglia, da luogo di costruzione della realtà diventa luogo cortocircuitato di oppressione, violenza e deprivazione dell’identità. Qui la figura limite dell’incesto, da archetipo tragico sembra quasi diventare metafora bruciante del destino dell’Italia.
Il fascino del testo di Bassetti consiste proprio in questa tensione tra la tragedia che abita due fratelli e il linguaggio con il quale il tragico viene espresso, fatto di un lessico semplice e di una scrittura che anche nei momenti più drammatici rimane leggera, ironica, decide di situare il tragico nel non detto chiedendo alla regia di farlo emergere attraverso un lavoro minuzioso sulla parola, sulla postura dei corpi, sui rapporti spaziali. Una regia a cui però viene anche chiesto di rimanere sulla soglia, in un atteggiamento di lirica oggettività, con una sorta di pudore verso un dramma che qui si dispiega attraverso una tecnica analitica di progressiva rivelazione del passato.
Nella semplicità quasi straniante che contraddistingue il dialogo dei due fratelli (i cui nomi segnalano una certa condizione infantile) e nel movimento asfittico e circolare che connota il testo, la scrittura, quasi come per una segreta vocazione, tocca due temi fondamentali come l’identità e il desiderio, vero centro gravitazionale della pièce: un desiderio lasciato alla sua opacità, alla sua profonda ambivalenza, che emerge dalle parole dei due fratelli come uno scarto, un resto, qualcosa destinato a una vita immaginaria.
Alessandro Machìa
2014. a steady rain (dentro la pioggia)
A steady rain (dentro la pioggia)
di Keith Huff
traduzione di Giuditta Martelli
progetto e regia Alessandro Machìa
con Graziano Piazza e Davide Paganini
scene e luci Chiara Martinelli
costumi Sara Bianchi
musiche Francesco Verdinelli
ambiente sonoro Gianluca Gasparrini
aiuto regista Valeria Bernini
produzione Zerkalo e Dionisio Produzioni
debutto in Prima Nazionale | XXVIII TODI FESTIVAL 23 / 25 agosto 2014
«Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo.»
(Paul Ricoeur, Tempo e racconto)
Basandosi sul plot convenzionale del “buddy cop movie” (quel filone cinematografico americano incentrato sulle avventure di due poliziotti, uno buono e l'altro cattivo), Keith Huff costruisce un testo affilato e inesorabile. Attraverso la tecnica dello “storytelling” , in cui tutti gli eventi vengono raccontati e l'azione coincide quindi con la narrazione, l'autore costruisce quasi un apologo della nostra società. Il doppio racconto dei due amici, fatto di banali inseguimenti, sparatorie, prostitute e corruzione, diventa la metafora apocalittica del degrado morale dell'uomo contemporaneo. Nel tempo del racconto si dispiegano temi universali quali l'amore, la morte, il desiderio, la violenza, il sacrificio, la memoria.
Ma su tutti emerge potente il tema della verità e del linguaggio, che Keith Huff mette in questione con la struttura stessa del testo (fatta di continui slittamenti spaziali e temporali, omissioni, lapsus) e che la regia indaga sia facendo interagire il verbale e il sonoro in un reciproco gioco di scarti e rinvii dal quale emergerà il senso; sia scegliendo di privilegiare non tanto e non solo la dinamica performativa e attoriale (come nelle versioni americane), quanto di portare all'evidenza con la recitazione il meccanismo stesso della scrittura e dei suoi complessi giochi linguistici. Allo spettatore - pensato quindi come attivo e non passivo - è affidato il compito di riempire i buchi, districarsi tra il detto e il non-detto, costruire il proprio percorso di comprensione all'interno della narr(azione).
Alessandro Machìa
(Paul Ricoeur, Tempo e racconto)
Basandosi sul plot convenzionale del “buddy cop movie” (quel filone cinematografico americano incentrato sulle avventure di due poliziotti, uno buono e l'altro cattivo), Keith Huff costruisce un testo affilato e inesorabile. Attraverso la tecnica dello “storytelling” , in cui tutti gli eventi vengono raccontati e l'azione coincide quindi con la narrazione, l'autore costruisce quasi un apologo della nostra società. Il doppio racconto dei due amici, fatto di banali inseguimenti, sparatorie, prostitute e corruzione, diventa la metafora apocalittica del degrado morale dell'uomo contemporaneo. Nel tempo del racconto si dispiegano temi universali quali l'amore, la morte, il desiderio, la violenza, il sacrificio, la memoria.
Ma su tutti emerge potente il tema della verità e del linguaggio, che Keith Huff mette in questione con la struttura stessa del testo (fatta di continui slittamenti spaziali e temporali, omissioni, lapsus) e che la regia indaga sia facendo interagire il verbale e il sonoro in un reciproco gioco di scarti e rinvii dal quale emergerà il senso; sia scegliendo di privilegiare non tanto e non solo la dinamica performativa e attoriale (come nelle versioni americane), quanto di portare all'evidenza con la recitazione il meccanismo stesso della scrittura e dei suoi complessi giochi linguistici. Allo spettatore - pensato quindi come attivo e non passivo - è affidato il compito di riempire i buchi, districarsi tra il detto e il non-detto, costruire il proprio percorso di comprensione all'interno della narr(azione).
Alessandro Machìa
2011. sogno d'autunno (draum om hausten)
Sogno d'autunno (draum om hausten)
di Jon Fosse
traduzione di Fulvio Ferrari
progetto e regia Alessandro Machìa
con Sergio Romano, Viola Graziosi, Daniela Piperno, Massimo Lello, Elisa Amore
scene Domenico Canino
costumi Sara Bianchi
luci Giovanna Bellini
suono Gianfranco Tortora
aiuto regia Elena Fuganti
assistente alla regia Paola Santamaria, Brunilde Maffucci
ufficio stampa e promozione 369gradi
produzione Zerkalo - con il sostegno di Roma Capitale - Ass.to alle Politiche Culturali - e della Reale Ambasciata di Svezia
debutto 2011 TEATRO VASCELLO, stagione 2011/2012 | dal 7 al 23 aprile 2011
Un cimitero astratto, senza croci o riferimenti al sacro, segnato solo da una trama ossessiva di nomi e cognomi, date di nascita e di morte, tracce che rinviano a ciò che è stato e che non è più. Un uomo e una donna si incontrano. Lui sembra essere giunto lì in anticipo per il funerale della nonna. Lei sembra esserci capitata per caso. In un presente ellitticamente eterno, si trascina una conversazione laconica, minimale, che rivela tra i due un passato imperscrutabile e un futuro impossibile da realizzare. D’un tratto, in un tempo drammaturgicamente opportuno, giungono la madre e il padre dell’uomo, anche loro in anticipo: lui un uomo labile e molle, talmente incapace di qualsiasi decisione o slancio da sembrare già morto; lei una madre petulante, ossessiva e iper-protettiva, che rimprovera il figlio di voler semplicemente sparire, di volerli dimenticare andando via con la donna. Tutto accade e niente accade, nello spazio di un anticipo continuamente differito, in cui passato presente e futuro, vita e morte si sovrappongono finendo nell’indistinto; fino a che, alla morte della nonna si aggiunge quella del padre, poi quella di un figlio dimenticato, forse già morto o forse mai nato. Fino a che, così come si vive, l’uomo si alza e muore, senza lasciare alcuna traccia di sé, mentre le donne, come le tre Parche, rimangono sole a protezione dell’imperativo della vita e dell’ordine delle cose.
Jon Fosse costruisce questo capolavoro che chiama “commedia”, come una sciarada, un enigma scenico in cui tutto accade in un tempo d’anticipo sulla morte, come una variazione musicale su uno stesso tema, la morte appunto, l’Irriducibile a cui tutti i personaggi provano a opporre il Qualcosa, a loro modo: l’illusione dell’idillio che sanno impossibile, l’ordine della famiglia ormai alla deriva, l’estemporaneità dei rapporti personali, l’osceno come gesto umano di affermazione della vita. Salvo accorgersi di essere solo voci ripetute di corpi che finiranno nell’oblio. Un testo potentissimo e ironico sulla morte, sul tempo, su Dio, sull’amore e sulla fine del desiderio. La morte come la realtà più propria dell’essere umano, il frutto attorno a cui le forze della vita si oppongono e di cui « noi siamo solo la buccia e la foglia ». La morte come compimento del Senso e desiderio indicibile di ricongiungimento con esso che si presenta all’improvviso, in un giorno d’estate o nell’oscurità di una sera d’autunno, in cui di colpo si finisce senza volerlo in ascolto del vento o del vuoto. E si decide di attraversarli.
Alessandro Machìa
Jon Fosse costruisce questo capolavoro che chiama “commedia”, come una sciarada, un enigma scenico in cui tutto accade in un tempo d’anticipo sulla morte, come una variazione musicale su uno stesso tema, la morte appunto, l’Irriducibile a cui tutti i personaggi provano a opporre il Qualcosa, a loro modo: l’illusione dell’idillio che sanno impossibile, l’ordine della famiglia ormai alla deriva, l’estemporaneità dei rapporti personali, l’osceno come gesto umano di affermazione della vita. Salvo accorgersi di essere solo voci ripetute di corpi che finiranno nell’oblio. Un testo potentissimo e ironico sulla morte, sul tempo, su Dio, sull’amore e sulla fine del desiderio. La morte come la realtà più propria dell’essere umano, il frutto attorno a cui le forze della vita si oppongono e di cui « noi siamo solo la buccia e la foglia ». La morte come compimento del Senso e desiderio indicibile di ricongiungimento con esso che si presenta all’improvviso, in un giorno d’estate o nell’oscurità di una sera d’autunno, in cui di colpo si finisce senza volerlo in ascolto del vento o del vuoto. E si decide di attraversarli.
Alessandro Machìa
2010. sogno d'autunno (draum om hausten)
Sogno d'autunno (draum om hausten)
di Jon Fosse
traduzione di Fulvio Ferrari
idea scenica e regia Alessandro Machìa
con Francesco Acquaroli, Gaia Zoppi, Nadia Brustolon, Massimo Lello, Marta Scelli
scene Domenico Canino
costumi Valentina Ardelli
luci Gorjana Ducic
suono Gianfranco Tortora
aiuto regia Elena Fuganti
assistente alla regia Dalila D'amico
ufficio stampa e promozione Zerkalo
produzione Zerkalo - con il sostegno di Roma Capitale - Ass.to alle Politiche Culturali - e della Reale Ambasciata di Svezia
debutto nazionale Roma, TEATRO ALLO SCALO, stagione 2009/2010 | dall'8 al 13 dicembre 2009
2010. Intervista ai parenti delle vittime
Intervista ai parenti delle vittime
di Giuseppe Manfridi
progetto multimediale e regia di Alessandro Machìa
con Marta Scelli
e con Alessandro Machìa, Elena Fuganti, Dalila D'amico, Francesco Iezzi, Giulia Orsi, Maria Costanza Barberio nella parte di se stessi
scene e luci Alessandro Machìa
costumi Fabrizia Migliarotti
video Dalila D'amico
operatore Francesco Iezzi
immagini di repertorio Daniele Di Marco
aiuto regia Elena Fuganti
assistente alla regia Dalila D'amico
assistente ai costumi Giulia Orsi
responsabile tecnico Giovanni Receputi
produzione Zerkalo
debutto TEATRO LO SPAZIO.IT, stagione 2010/2011, RASSEGNA EXIT II emergenze identità teatrali | dal 23 al 28 febbraio 2010
A parlare è la sorella di una donna trovata morta per overdose vicino alla panca di una chiesa, poco distante dall’altare. La donna, rivedendo l’intervista concessa a
una troupe televisiva dichiara solo quello che il regista vuole sentire per confezionare l’ennesima mitologia televisiva: la realtà dell’overdose, il fatto di cronaca bruto, con tanto di lacrime pre-confezionate.
Lo spettacolo trasforma il monologo-confessione della donna, nella scena di un B-movie che si sta girando in quel momento e che il pubblico presente a teatro non vedrà mai. Non un facile j'accuse contro la finzione dell'immagine in nome di una verità di cui ormai ci è rimasto solo il concetto vuoto ma, più in profondità, una riflessione su come questa finzione, sempre e comunque deprecata, sia costitutiva di ciò che ricordiamo oggi e forse ricorderemo domani e domani l'altro, elemento ineliminabile della memoria del mondo.
Alessandro Machìa
una troupe televisiva dichiara solo quello che il regista vuole sentire per confezionare l’ennesima mitologia televisiva: la realtà dell’overdose, il fatto di cronaca bruto, con tanto di lacrime pre-confezionate.
Lo spettacolo trasforma il monologo-confessione della donna, nella scena di un B-movie che si sta girando in quel momento e che il pubblico presente a teatro non vedrà mai. Non un facile j'accuse contro la finzione dell'immagine in nome di una verità di cui ormai ci è rimasto solo il concetto vuoto ma, più in profondità, una riflessione su come questa finzione, sempre e comunque deprecata, sia costitutiva di ciò che ricordiamo oggi e forse ricorderemo domani e domani l'altro, elemento ineliminabile della memoria del mondo.
Alessandro Machìa
2008. trio in mi bemolle (le triò en mi bemolle)
Trio in mi bemolle (Le triò en mi bemolle)
di Eric Rohmer
(spettacolo per attore, suono e immagine)
traduzione di Sergio Toffetti
elaborazione multimediale, scene e regia Alessandro Machìa
con Giorgia Guerra e Andrea Fazzari
costumi Fabrizia Migliarotti
suono Tiziano Ricci
luci Luna Braccioli
direzione fotografia e operatore video Giorgio Bianchi Cagliesi
montaggio Daniele Di Marco e Valentino Panariello
aiuto regista Simone Siverino
assistente alla regia Farid Al Aflak
assistente ai costumi Claudia Rosati, Cecilia Blixt, Suvi Kainu, Nicola Trotta
responsabile tecnico Giovanni Receputi
realizzazione scenografia Euroscena International
produzione: Zerkalo, con il patrocinio della Regione Lazio
debutto Roma, TEATROINSCATOLA, Rassegna A.T.C.L. "uno sguardo dal ponte" | dall'1 al 3 maggio 2008tournée Velletri (RM), TEATRO DI TERRA | 10 maggio 2008
Roma, TEATRO LO SPAZIO.IT | dall'11 al 17 maggio 2008
Morlupo (RM), TEATRO COMUNALE | 23 e 25 maggio 2008
Roma, TEATRO LA COMUNITA' | dall'11 al 15 giugno 2008
Fiano Romano (RM), Cortile del Castello Orsini. PRIMO FESTIVAL DEL TEATRO | 3 luglio 2008
Uno spazio-scatola. Una cornice-quarta parete che direziona lo sguardo degli spettatori e incastona la scena come in un’inquadratura cinematografica in formato panoramico. Oltre lo schermo-cornice agiscono i due personaggi tra un dentro e un fuori-campo, in un spazio teatrale che è anche spazio cinematografico, luogo del Desiderio.
Uno spazio-scatola che è immagine, finestra aperta su una realtà che si mostra e si sottrae rivelandosi nella sua natura di frammento.
Sulla parete di fondo, uno schermo-finestra, quella dalla quale guarda Paul, aperta sul mondo esterno da cui proviene Adèle all’inizio di ogni quadro, sette quadri che scandiscono il passaggio delle stagioni e i cambiamenti emotivi dei due amici-amanti, resi ancor più netti dalla creazione di una tessitura precisa di micro gesti e movimenti rivelatori di ciò che sta sotto la parola. Dentro questo spazio-inquadratura si apre un interno-salotto, scarno, fatto di pochi elementi scenici in stile postmoderno, richiamanti una certa geometria di forme e colori che ricordano Mondrian. Qui i due personaggi si muovono, agiscono, si inseguono, si nascondono, parlano, fra le dissimulazioni dei gesti, la verità dei volti e i depistaggi della parola, fra moralità e sensualità, fra Mozart e il rock; tracciando sulla scena percorsi obbligati e precisi, movimenti continui attorno a spazi dati che evidenziano quella geometria dell’esistenza propria del cinema di Rohmer.
Alessandro Machìa
Uno spazio-scatola che è immagine, finestra aperta su una realtà che si mostra e si sottrae rivelandosi nella sua natura di frammento.
Sulla parete di fondo, uno schermo-finestra, quella dalla quale guarda Paul, aperta sul mondo esterno da cui proviene Adèle all’inizio di ogni quadro, sette quadri che scandiscono il passaggio delle stagioni e i cambiamenti emotivi dei due amici-amanti, resi ancor più netti dalla creazione di una tessitura precisa di micro gesti e movimenti rivelatori di ciò che sta sotto la parola. Dentro questo spazio-inquadratura si apre un interno-salotto, scarno, fatto di pochi elementi scenici in stile postmoderno, richiamanti una certa geometria di forme e colori che ricordano Mondrian. Qui i due personaggi si muovono, agiscono, si inseguono, si nascondono, parlano, fra le dissimulazioni dei gesti, la verità dei volti e i depistaggi della parola, fra moralità e sensualità, fra Mozart e il rock; tracciando sulla scena percorsi obbligati e precisi, movimenti continui attorno a spazi dati che evidenziano quella geometria dell’esistenza propria del cinema di Rohmer.
Alessandro Machìa